Approcciata da un tedesco

Non amo parlare pubblicamente del mio lavoro, specie da quando ho intrapreso la libera professione. Reputo la questione abbastanza intima per essere condivisa, non mica come quando racconto di cagotti e mal di pancia. Quello va bene. Non ne parlo volentieri perché esiste una cosa da noi, chiamata occhio, che è peggio di una malattia. L’occhio è una condizione psico-fisica particolare che coinvolge due soggetti: l’invidioso e l’invidiato. Secondo quanto riportato sul dizionario, l’invidia è “il malanimo provocato dalla constatazione dell’altrui prosperità, benessere, soddisfazione“. Cioè uno a cui in sostanza rode spesso il culo.
Nel momento esatto in cui l’invidioso prova invidia nei confronti dell’invidiato, ecco che automaticamente depone il suo occhio contaminato sulla povera vittima, provocando certi fastidi all’anima che per questioni di privacy non posso descrivere. Per fini narrativi citerò brevemente il mio lavoro, ma non temete, mi sono premunita di un antidoto estremamente valido e scientificamente dimostrato contro eventuali “occhi”. Grazie a Schengen essi possono viaggiare anche tra diversi paesi membri dell’Unione Europea, senza dover esibire il passaporto. Perciò siamo tutti potenziali perseguitati.
Imbruttimento
Da qualche tempo ho iniziato a lavorare a un progetto importante, uno di quelli che te lo sogni la notte nel panico di aver sbagliato qualcosa, uno di quelli che ti dimentichi di lavarti e di mangiare, talmente sei inchiodato al computer a fare tutto per bene, uno per cui non ti levi il pigiama di dosso fino alle 20:00 di sera e poi non te lo levi più perché tanto stai per andare a letto e quindi tanto vale.
Al terzo giorno consecutivo di chiusone però, poiché lo stomaco comincia a richiedere altro tipo di nutrienti oltre ai toast prosciutto e formaggio, mi vedo costretta a uscire per fare la spesa. Non ho mai posto particolare attenzione all’abbigliamento nel contesto berlinese: da come mi vesto è impossibile dedurre dove io sia diretta o a quale attività stia per dedicarmi. Una pizza in ristorante, così come una serata al cinema, uno spettacolo all’Opera o una scampagnata al parco, equivalgono per me, sempre e comunque, a jeans e maglietta. O jeans e maglione nella stagione fredda.
Il trucco poi è una questione assolutamente superata. Odio perdere tempo davanti allo specchio e non solo perché la maggior parte delle volte mi vedo cessa anche dopo copri occhiaie e mascara. È che proprio mi pesa il braccio, mi freme la colonna vertebrale e mi viene il sorriso triste dei clown ogni volta che tento di fare qualcosa di troppo femminile. Il trucco va bene giusto ai matrimoni e ai colloqui, il resto dell’anno è inutile.
Ritorno in società
Tutta questa introduzione solo per rendere l’idea di come io sia uscita di casa oggi, quando, dopo otto ore di lavoro davanti al pc, sono dovuta tornare alla civiltà per procacciarmi del cibo. Il vestiario si è capito, lo spirito pure. Ma vorrei soffermarmi sulla faccia: sulle occhiaie color fuliggine che mi fanno sembrare la dark che non sono, sulle palpebre gonfie reduci dalla luminosità accecante dello schermo, sui capelli incasinati tirati su con la prima molletta raccattata in bagno, sulle labbra mangiucchiate dal nervoso. Dai, una bagnarola. Ci siamo capiti.
La gioia di fare la spesa
La mia stanchezza è proporzionale alla scelta dei viveri: opto per degli originalissimi petti di pollo, sintomo di estrema creatività culinaria. Anche perché il Kebab l’ho già mangiato a pranzo e mi riservo una dose di cibo spazzatura solo una volta al giorno. Scelgo naturalmente la cassa con la coda più lenta, perché non c’è mai fine al disagio e, una volta messo tutta la spesa nello zainetto Decathlon che tanto è in voga qui al nord, esco dal centro commerciale trascinandomi con una scarpa mezza slacciata.
Per aggravare ancora di più la situazione già di per sé abbastanza drammatica, ci si mette pure quel dolore alla spalla che mi trascino dai tempi dell’università a Padova. Appena torna il freddo è come se una lama mi penetrasse nel trapezio sinistro partendo dalla clavicola, il che mi costringe a tenere lo zaino sollevato dal lato dolorante e a fare movimenti non proprio attinenti ai consigli del fisioterapista. Ho questa immagine di me che cammino verso casa come il Gobbo di Notre Dame. E direi che con l’autostima per oggi può bastare.
L’incontro
Il semaforo che separa il centro commerciale da casa mia dura giusto il tempo di fare domanda per la pensione e, naturalmente, è appena scattato il rosso. Ci sono dieci gradi e voglio rimettermi nelle grinfie del mio pigiamino di pile, perciò sbuffo scazzatissima in attesa del verde. Un ragazzo mi si mette a fianco ed esordisce con un normale “Entschuldigung“, che sarebbe “scusa?“. Sarà l’ennesimo fattone che gira intorno alla Frankfurter Allee a chiedere spiccioli e non mi sforzo di camuffare la faccia della morte (è normale qui, la faccia della morte, tranquilli, ricordate che siamo in Germania). Dura tutto una frazione di secondo, il mio interlocutore non è un punkettone disperato perciò gli concedo il beneficio del dubbio. Sarà uno di quegli avvoltoi delle associazioni che si appostano fuori dai supermercati per raccogliere firme.
“Parli tedesco?”.
“Sì“.
“No sai, ti ho vista uscire dal centro commerciale, ti ho notata e ho pensato che sei molto carina perciò volevo presentarmi e dirti ciao“. Cinque anni a Berlino e ogni volta una sorpresa. “Quando ti ho vista passare ho pensato che non sei male ed ero in dubbio se parlarti o meno, ma alla fine ho deciso di avvicinarmi“. Sorrido. E sono parecchio imbarazzata. Non ho fatto una scuola adeguata sull’argomento. Ho sempre avuto amiche più gnocche di me e certe situazioni non so come gestirle. Di solito conquisto la cacciagione con l’arte oratoria e non sculettando, visto che a ogni movimento dei fianchi corrisponde un notevole spostamento d’aria.
Devo mettere fine al supplizio. “Guarda, scusami, mi dispiace tanto, es tut mir wirklich leid, ma sono sposata”. E nel dire la balla sollevo la mano destra dove tengo la fede sarda che G. mi ha regalato al nostro quarto anniversario. Roba che se mia suocera sapesse che millanto matrimoni mai celebrati con un anello non d’oro potrebbe scatenare una guerra. Fortunatamente la bugia regge per due motivi:
- i tedeschi tengono la fede nuziale nella mano destra;
- i tedeschi hanno gusti discutibili in fatto di fedi nuziali.
E non che la mia fede non sia bella, anzi. È che in Germania l’anello di matrimonio varia a seconda della coppia, non è standard come da noi. E conoscendo la sobrietà dei soggetti, vi lascio immaginare. Io comunque sono scaramantica e a prescindere non la indosso mai nella mano sinistra nella speranza che un giorno G. mi proponga l’improponibile. Io ho già chiesto un paio di volte ma il ragazzo non ne vuole sapere.
In vena di complimenti
Ma, tornando a noi. Il mio nuovo spasimante resta spiazzato dalla mia confessione e ripete come se fosse la cosa più assurda mai sentita: “Sei sposata??“. Vai sconosciuto, metti il dito nella piaga.
“Sì, mi dispiace, sono proprio veramente sposata“. E sorrido.
“Hai dei denti bianchi bellissimi. Sei davvero bella“.
Ripensandoci potrei passare con l’estraneo ancora qualche minuto.
“Ti ringrazio ma ora devo proprio andare, ti auguro una buona serata“. Nel frattempo è scattato pure il verde. Mi conviene andare se voglio evitare di trasferire la residenza in quest’angolo della strada.
“Non importa, almeno ci ho provato. Anche solo per farti dei complimenti“. Ringrazio commossa e attraverso il viale. Sono arrivata a Berlino nel 2015 con il cuore già ammanettato, non mi era mai capitato di vivere un mini flirt con un indigeno. Condivido subito la notizia con il mio G., il quale, tutt’altro che geloso, ha espresso così il suo stupore:
- ma era un ragazzo malato?
- per poi concludere con un: beh qualche problema doveva averlo per avvicinarsi così.
Evviva l’amore.