Quella volta in cui piansi a Berlino

Quella volta in cui piansi a Berlino ero fresca di arrivo, e non capivo praticamente nulla del sistema, della burocrazia, delle persone che mi parlavano, degli annunci in metropolitana.

Ero messa male. Talmente male che avevo deciso di portare con me i libri di tedesco del liceo, comprati di terza mano e talmente pasticciati che sarebbero dovuti stare dentro una teca di vetro per preservarne la leggibilità. Li avevo portati nella speranza di recuperare qualche reminiscenza dall’hard disk cerebrale ormai vecchio di dieci anni, qualche parola, qualche verbo, i dativi, gli accusativi, der, die, das, die, convinta che un solo sguardo a quelle pagine logore avrebbe acceso chissà quale lampadina.

L’ultimo anno di scuola capitava spesso che non avessi voglia di stare in classe, e inventando scuse a dir poco ridicole, saltavo quasi sempre le ore di tedesco e non perché non mi piacesse, per quanto come lingua abbia il suono del metallo dato sui denti, ma perché fondamentalmente ero sicura che nella vita non mi sarebbe servito a granché. Chiacchierare con bidelli e tecnici, ai tempi, era ritenuto oltre che uno spasso, anche infinitamente più istruttivo. Ah, l’Università della Vita.

Capita un giorno, ormai a Berlino da ben quattro mesi, che un conoscente mi consiglia di recarmi al Job Center per scoprire se ci fosse la possibilità di avere un sussidio. Ero temporaneamente disoccupata dopo aver lavorato come baby sitter, senza mai aver firmato un contratto, senza mezzo contributo versato: l’unico diritto che avevo era quello di stare zitta, e anziché seguirlo alla lettera e mandare a quel paese l’interlocutore, decido di andare di mia sponte nella tana del lupo cosparsa di salsa barbecue con aggiunta di rosmarino, che ci sta sempre bene.

Per chi non lo sapesse, il Job Center è l’ente per l’impiego dedicato a chi cerca un lavoro, che toglie dai casini quando non si può farlo da soli e dopo un periodo x dovrebbe condurre le persone a gestirsi in autonomia, con le proprie forze. Ti pagano l’affitto, l’assicurazione sanitaria, sborsano una paghetta mensile di qualche centinaio di euro e possono addirittura sponsorizzare corsi di tedesco o di altro genere per aiutare l’utente a rimettersi in carreggiata, lavorativamente parlando. Che detto così sembra molto figo (e in effetti lo è), ma lo Stato non è Babbo Natale, che elargisce regali a fondo perduto e se ti fanno cagare al massimo aspetti l’anno dopo sperando in qualcosa di meglio. Per averne accesso bisogna soddisfare diversi requisiti, tra cui l’aver lavorato un tot di tempo in Germania (non pochi mesi come me), essere stati licenziati o avere contratti ridicoli tipo MiniJob. (Per maggiori dettagli consiglio di munirsi di dizionario e andare sulla loro pagina ufficiale).

A dispetto del concetto promettente racchiuso nel suo nome, tutto assegni e carriere sfolgoranti, il Job Center è una macchina infernale, un po’ Caritas e un po’ caserma. Ti campano fino a che non risolvi la tua vita, ma in cambio devi essere disponibile a perdere decenni di sospiri appresso alla burocrazia e a parole chilometriche e farti contare anche la peluria dei posti più reconditi del corpo.

Di facciata è tutto assolutamente logico e utile. Ma solo nelle conversazioni da bar salta fuori il ruolo effettivo del Job Center, quando si assiste ai ragionamenti delle persone reali, quando si parla di lavoro in nero, di contrattini di facciata dietro cui si nascondono impieghi full time oltre il limite della legalità, quando si fa la gara a chi la sa più lunga pur di entrare nelle grazie dell’ente miracoloso.

Allora il Job Center diventa improvvisamente la Mecca delle zecche, il tempio della nullafacenza, un porto sicuro dove poter attingere risorse quando la voglia di procurarsele da soli, le risorse, è scarsa o pressoché nulla. Un luogo mistico di cui si sente l’eco persino nelle desolate lande italiane, tanto che in diversi, percependone le lodi, decidono di fare i bagagli con destinazione Germania parlando solo dialetto e un po’ di italiano (comunque abbastanza inutile all’estero), nessuna qualifica, nessun risparmio da parte, nessun contatto sul posto.

Nelle piazze di paese virtuali come i Forum o i Gruppi Facebook, ho letto spesso di persone che prima ancora di partire per cercare un impiego qui, chiedevano informazioni sul Job Center (giuro), avanzando pretese su fantomatici corsi di tedesco gratuiti per i neo arrivati – che sennò come si fa a trovare lavoro senza parlare la lingua-, sull’ammontare del sussidio e la durata. Eh, lavare i piatti no che in Italia facevo tutt’altro.

La colpa non è loro, naturalmente, ma dei geni del male che per anni hanno fatto i ganzi raccontando a destra e a manca di quanto fossero bravi a incularsi lo Stato tedesco. Questi prodigiosi ragazzacci, per non perdere i soldi, cercano raramente di migliorare la propria condizione lavorativa: hanno fatto bene i conti in tasca calcolando che un impiego a tempo pieno non eguaglierebbe la paghetta di mamma Germania.

Oltre questo universo di parassiti, ci sono infine le persone che del Job Center hanno davvero bisogno. Famiglie numerose, disoccupati che non riescono ad arrivare a fine mese, lavoratori stagionali. E fa dispiacere sapere che nonostante la situazione drammatica, ci siano individui consci e felici di approfittarsene, che manco Lupin avrebbe osato tanto. Almeno, a me un po’ dispiace, ma suppongo sia per la presenza di una coscienza sotto i muscoli afflosciati.

Insomma, quel giorno lì, allo sportello di uno dei trilioni di Job Center sparsi sul territorio, a parte la solita nenia sul mio cognome, che per chi non lo sapesse è Frau, e vai di risatine, battutine, occhiatine, quel giorno lì mi sono imbattuta in una classica tedesca imbruttita, una di quelle che a colazione mangia punte chiodate e non si sa bene se era già acida prima di quel lavoro, o è quel lavoro ad averla resa stronza.

Con un tedesco arrangiato dai vecchi libri, chiedo informazioni, o almeno, credo di star chiedendo informazioni, e la signora ha già le ovaie in subbuglio solo per avermi sentito parlare, tanto che scocciatissima si gira verso un collega più giovane e comincia a cantarmele, ma senza guardarmi in faccia, nonostante fossi impalata lì e capissi insulto per insulto.

“Non se ne può più, questi vengono qui e non sanno parlare nemmeno la lingua. Dovrebbero restarsene a casa loro, cosa ci fanno in Germania!”.

Fatemi pensare, dove ho già sentito questo discorso?

Brutta sensazione quando vorresti leggere la vita a qualcuno ma il massimo che sai dire è “sì, con latte grazie“.

Questa è la volta in cui ho pianto a Berlino, ho pianto mentre rimettevo il documento di identità nel portafoglio all’uscita da un ufficio pubblico, dopo ore interminabili in fila in attesa del mio turno, quando un’impiegata poco empatica mi ha fatto realizzare di botto che ero un’immigrata come gli altri. Perché si può anche viaggiare comodamente in aereo, con la valigiona di scorte alimentari e vestiti caldi, ma alla fine, qualsiasi sia il motivo che ci spinge a lasciare casa, un immigrato è un immigrato, solo che non siamo tutti sulla stessa barca.