Il Direttore d’orchestra

C’era una volta una ragazza speciale, ribattezzata come “Roberto” dai suoi amici più intimi. Non era un gesto cattivo il loro, né tantomeno una scusa machista per dar voce al maschilismo represso. Era un semplice dato di fatto, dal momento che la ragazza aveva rinunciato all’uso della parola in loro compagnia, preferendo di gran lunga forme espressive alternative, che lasciava spesso i ragazzi a bocca aperta e naso tappato

Non è che fosse messa in dubbio la sua identità di genere, che lei sentiva femminile al 100% (90 se escludiamo le parentesi dichiaratamente organiche). Non è che l’atteggiamento selvatico avesse di colpo legittimato un cattivo uso delle forme linguistiche nei suoi confronti. Passi la nomea di Roberto, tra amici tutto è (più o meno) concesso; ma il suo lato incontinente era e restava un gioco, una provocazione, un modo per affrontare il passaggio all’età adulta nella maniera più inelegante possibile. 

Era una studentessa universitaria in settimana, una cameriera nei weekend e un’aspirante scrittrice prima di addormentarsi. Insieme a tutta un’altra serie di professioni fighissime che però doveva suo malgrado eliminare dalla lista. L’unico dato certo, nell’incertezza, era costituito dalla desinenza delle parole che si auto-attribuiva, a prescindere dal lavoro sognato: -trice -a -essa -ina. Quattro possibilità: niente di così difficile. 

Tra tutti, il mestiere dello scrivere rappresentava per lei il fine ultimo della sua esistenza, un desiderio inarrivabile, una pizza con mozzarella di bufala e stracciatella che si autorigenera ad ogni morso.  

E anche se la maggior parte dei mostri consacrati dalla letteratura mondiale erano (e sono) per la maggior parte maschietti, mai si sarebbe sognata di dire in giro che voleva fare lo scrittore. Nemmeno Roberto tra pernacchie di gas e digestioni tuonanti avrebbe osato tanto. 

Sì, sto ancora pensando alla storia del Direttore d’Orchestra. 

Ognuno ha la libertà sacra di sentirsi come vuole all’interno del proprio involucro mortale. Di farsi chiamare con un altro nome, di autodefinirsi con aggettivi declinati al femminile o al maschile, e di chiedere agli altri di fare lo stesso. Non mi scandalizzo quando un uomo si rivolge a se stesso dandosi della pazza, né tanto meno quando avviene il contrario. 

È legittimo, santiddio. Ma non è che puoi assumere una donna delle pulizie, atteggiarti da spiritosA, andare dalla parrucchierA, comportarti da amicA, e poi di colpo negare l’esistenza di un’intera categoria solo perché la parola direttrice ti ricorda la signorina Rottermeier

Il dibattito online

Tra le varie riflessioni lette su Internet, due mi hanno colpito in particolare: 

  • Una donna non è mai libera di definirsi come preferisce. Errore. Una donna può definirsi come meglio credo, se poi mantiene la coerenza linguistica anche in altre circostanze. Se sei direttore, sei anche cittadino, maestro, compagno e all’occorrenza anche un po’ stronzo. 
  • In alcune categorie professionali si continua a usare il maschile, nonostante ci si riferisca a donne. Vero. Trattandosi di mestieri svolti nei secoli esclusivamente da uomini, è un’eredità a cui bisogna porre rimedio. Alcuni stanno già entrando nell’uso comune: vedi ministra, sindaca, assessora; ma altri no, tipo avvocata (che essendo Avvocata Nostra la madre di Dio, sa molto di catechismo) o giudicessa (che ricorda Eleonora d’Arborea). Anche perché, non so se ci avete fatto caso, ma il problema si pone per lo più verso quei lavori per cui è necessaria una formazione universitaria, e le donne, fino a poco tempo fa, ne erano escluse, persino quelle di buona famiglia. Per tutte le altre mansioni, invece, lo spazio per loro c’è sempre stato eccome. 

Proviamo a cambiare le cose?

Essere donna non è un impiego a tempo, un alimento soggetto a scadenza, o un’etichetta di cui fregiarsi quando fa comodo. E se vogliamo che la parola direttrice (così come molte altre) si liberi dei connotati negativi di cui è evidentemente vittima, è bene che ciascuno faccia la sua parte nel riconoscere che, “ehi, sì, ci siamo anche noi!”. 

Senza sentirci sminuite, senza vergogna, senza senso di inferiorità che, per quello, ci ha già pensato abbondantemente la storia.