Racconti d’aeroporto

Avrei migliaia di racconti d’aeroporto. Ma cominciamo con tre.

AEROPORTO DI TORINO

In attesa che annunciassero il gate, la ragazza seduta di fianco, mi chiede di badare alla sua valigia finché non fosse tornata dal bagno.
“Assolutamente, vai tranquilla”.

Mi ringrazia e si dilegua tra la folla, giusto il tempo di farmi quelle due o tre seghe mentali sul contenuto della borsa, su ciò che avrei provato alla deflagrazione dell’ordigno, sull’orda di poliziotti che a breve mi avrebbe circondato intimandomi di sdraiarmi con la faccia per terra e le mani bene in vista. La ragazza torna, e tempo due secondi e mezzo, ci abbottoniamo come due comari sedute sui gradini di casa a commentare il nuovo moroso della vicina.

Lei è siciliana e vive all’estero già da qualche anno, a Parigi per la precisione, ed è lì che sto andando anche io. Merda. Salteremo tutti per aria.
La sua valigia è di un rosa candido, dubito che dentro quell’involucro così confettato possa nascondersi una bomba, se escludiamo quelle di tipo calorico impacchettate dalla mamma. Scaccio i pensieri dalla testa e mi concentro sulla conversazione, che si rivela talmente tanto piacevole, da farci quasi perdere il volo. Ultima chiamata per il Charles De Gaulle.

Ci lanciamo in una corsa disperata verso l’uscita, e per fortuna le porte sono ancora aperte per noi pettegole. Ho aspettato questo momento così a lungo, che se me lo fossi bruciato per discorrere con una possibile terrorista, non me lo sarei mai perdonato.
E no. Non sono paranoica.

Sto andando a Parigi per un tirocinio all’Istituto Italiano di Cultura, ma questa è un’altra storia, ve la racconto un altro giorno.

AEROPORTO DI ALGHERO

Ormai sicura da anni che il mio aspetto non sia calamita nefasta verso finanzieri e forze dell’ordine in generale, procedo spedita verso l’uscita che sta per condurmi a Berlino. Non sono mai stata un particolare stacco di gnocca, ma nemmeno una punk disadattata della Rigaerstraße.

Eppure, forse ingannato dalle occhiaie, forse dall’andatura poco principesca o dallo sguardo smarrito (all’aeroporto di Alghero basta un niente per perdersi), un carabiniere appostato prima del banco mi ferma con l’aria di chi sta per buttarlo nel culo a qualcuno, chiedendomi il documento di identità. Non pettino mai i capelli, li aggiusto con le mani e li lego alla bell’e meglio, ma oggi mi sento una ribellissima rastona con una valigia che però non abbaia.

Prendo la carta dalla borsa e la mostro con l’aria più innocente del mondo. La apre.

Questa non è lei“.
Come scusi?“.
La persona nella foto non è lei“.
Certo che sono io“.
No è completamente diversa“.

Cazzo e menomale! Sono passati anche quei cinque anni buoni da quando ho scattato quella foto nell’estate del 2012, pochi giorni prima del mio venticinquesimo compleanno.

Mi aspetto da un momento all’altro lo scoppio di una risata, una battutina, l’arrivo delle telecamere. Ma il mio interlocutore resta serio, non ha alcuna voglia di scherzare. Anche se l’idea mi imbarazza abbastanza, gioco l’arma dell’onestà, in fondo sono una brava cittadina. E così, prendendo in contropiede lo sventurato, che forse credeva di avere di fronte un rimasuglio dei Club berlinesi, comincio a enumerare i dettagli salienti dell’estate del 2012, per dimostrare che sì, quella nella foto sono proprio io.

Era la prima estate dopo la magistrale, si può dedurre dall’aria felice sul mio viso e dalla scelta di un vestito bianco a pois sbracciato. Faceva molto caldo. Andavo spesso al mare perché avevo deciso di grattarmi senza pudore, e questo giustifica il colorito angolano della pelle. Era un periodo particolarmente spensierato, un cambio epocale, e da qui derivò il taglio netto di capelli, arricchito da una permanente tendente all’afro ma non troppo, che mia zia è l’autrice dell’opera e conosce bene i miei gusti. Ora mi vede liscia perché l’effetto della chimica è svanito e io sono così di natura, però sto pensando di rifarmi riccia. Lavi la testa, un po’ di spuma, un tocco veloce di phon ed è fatta. Problema pettine risolto. Forse poi il mosso mi valorizza di più, non so“.

Sembro diversa perché fondamentalmente lo ero.
Ho risolto un mistero ma l’investigatore dovrebbe essere l’altro, che mi guarda arreso.
“Vada”.
E io vado.

BERLINO SCHÖNEFELD

Adoro partire da questo aeroporto per diversi motivi. Per quanto sia parte della zona C della città, il che comporta il pagamento di un supplemento per noi abbonati ai mezzi solo nell’area AB, è facilmente raggiungibile da casa mia. A differenza di quello sfigatello di Tegel, a Schönefeld arriva la metro, perciò non vedrete mai lotte sanguinolente su autobus intasati di viaggiatori, come invece capita a nord della capitale. Lo adoro anche perché c’è un terminal fatto apposta per chi ha già la carta d’imbarco, e di solito i controlli non durano mai più di un quarto d’ora.

Mai fino a oggi, naturalmente, quando dopo aver confermato di non avere liquidi e computer all’operatore, e dopo aver passato illesa i controlli del metal detector di ultima generazione, quello che vede se hai messo le mutande al contrario, mi dirigo alla fine del nastro trasportatore in attesa della mia valigia. Valigia che non arriva.

Una signora mi fa cenno di seguirla. Indossa guanti in lattice e mi mostra sospettosa le immagini risultate dallo scanner della mia piccolina. Avete presente un berlinese imbruttito nato ai tempi del muro? Non mi riferisco al taglio di capelli anni ’80, al colore non meglio definito, al portamento leggiadro di un armadio a sei ante. No, è proprio il tono con cui parlano, come se gli avessi sterminato la famiglia, a innervosirmi. E qui il tedesco può prendere due direzioni: essere stronzo fino alla fine o rivelarsi un simpaticone dalle battute gelide che poi uno si spiega tante cose.

Può aprire la valigia?

E nel farlo indica con lo sguardo l’immagine della radiografia, nello specifico verso il punto in cui sbucano oggetti potenzialmente pericolosi.

Mia madre.

E ora come le spiego che sto riportando a casa i barattoli con cui mia madre mi ha spedito il sugo fatto con i pomodori di campagna, che sono una viziata isolana, che se non restituisco i giocattoli alla legittima proprietaria, quella è capace di rimettere in piedi l’Armata Rossa e marciare su Berlino per riprendersi ciò che le appartiene?

La signora apprende con stupore che sì, trattasi effettivamente di barattoli di vetro vuoti, e mi guarda con fare interrogativo, perché lei, da brava tedesca, proprio non riesce a immaginarsi che cavolo se ne faccia una persona in viaggio di tutti quei contenitori. Ma a lei probabilmente nessuno ha mai detto: “riportameli mì!“. Anche perché la percentuale di genitori che cucinano in Germania è piuttosto bassa.

Mi scusi ma questi sono di mia madre, mi aveva spedito della Tomatensauce fatta in casa e ora glieli devo riportare“.
Sbarra gli occhi come a chiedermi se la stessi prendendo in giro o cosa.
Sono italiana“, ammetto.

Si rassicura immediatamente e mi sorride. A quanto pare fa parte della seconda categoria, ma non fa battutine, si limita solo a pensare che sono poco normale. Saranno passati altri terroni prima di me.
“Faccia buon volo e saluti sua mamma”.
Senz’altro, sto per chiamarla proprio adesso per raccontarle una storia.