Religiosi ricordi

CHI DI NOI NON HA RELIGIOSI RICORDI?

Uno dei pensieri fissi nella fase pre-adolescenziale della vita è l’arrivo dei 18 anni. Un po’ per le novità che il traguardo comporta: il diritto di voto, l’iscrizione a scuola guida, il sapore di libertà tanto atteso; un po’ per il gusto di mandare a cagare genitori asfissianti; un po’ perché dai, responsabilità a parte, essere maggiorenni è una figata.

Ma se, come me, si è nati e cresciuti in uno dei quartieri più gioviali di una piccola cittadina del nord Sardegna, accompagnati dal rintocco pop delle campane la domenica mattina, che non bastava mia madre a scandire la rottura di palle, è possibile che il momento più atteso alla fine dell’infanzia sia sancito dalla Cresima.

La fine di un’epoca.

Basta catechismo il mercoledì, basta messa obbligatoria della domenica, basta studiare a memoria le frasi fatte del libro della CEI. Per la Chiesa la maggiore età spirituale si raggiunge a dodici anni, ed è il momento per mettere in pratica gli insegnamenti di ore e ore di catechesi, per dimostrare al mondo di essere dei bravi fedeli. Tanti buoni propositi di cristianità coltivati per anni che si risolvono inevitabilmente nella latitanza a partire dalla domenica successiva al rito, giusto il tempo di sfoggiare i regali ricevuti dagli zii.

Alzarsi ogni domenica mattina per la messa delle dieci anziché ammuffire a letto, era peggio che una condanna all’ergastolo. Potevano darci il tempo di abituarci al traumatico passaggio dall’asilo alle elementari, dagli esercizi col punteruolo ai compiti a casa, dal sonnellino pomeridiano all’alfabeto. No, pure il catechismo ci voleva.

E da noi non è che si potesse scherzare più di tanto: avevamo il cartellino delle presenze, arancione acceso, che la catechista doveva firmare alla fine della messa ad ogni bambino del suo gruppo. E se facevi sport, gare, o i tuoi ti portavano in gita, eri bollato per sempre dalla Comunità come un’anima destinata ai Servizi Sociali.
Comprensibile quindi, dato il regime militaristico in cui è cresciuto il mio spirito, la passione che nutro nei confronti del Cattolicesimo.

Passare però il Natale lontano da casa, nella buia Germania del nord, con un alberello di plastica basso e secco, può risvegliare slanci di religiosità che non si pensava di avere. Ti ritrovi allora a pensare al passato, ai bei giorni in cui attendevi impaziente l’arrivo di Babbo Natale, a mamma che infornava nell’ordine porcetto, agnello e lasagne, ma dovevi aspettare la fine della messa prima di fiondarti a tavola. L’unico desiderio che si ha in questi momenti nostalgici, è quello di ricreare un po’ di quel calore, di quella vicinanza, di quell’attesa.

MA TORNIAMO ALLA CONTEMPORANEITÀ.

Io e G. ci guardiamo. Manchiamo dai banchi della Chiesa da parecchie lune, e considerato lo sbattimento che si sono presi per ricostruire la cattedrale di Santa Edvige dopo i bombardamenti, sarebbe un peccato sfidare l’architettura con la nostra presenza notoriamente poco devota. Ma ci sentiamo temerari e curiosi, e dopo un cenone a base di pappardelle con crema di zucchine e scampi, e orate al forno con patate (perché, fate poco i toghi, anche in Germania si può mangiare bene), ci prepariamo con gli abiti migliori per andare, ebbene sì, a messa.

Quando ero piccola ricordo che la domenica era sempre occasione per vestirsi bene, e anche a Natale, viste le temperature, si potevano indossare vestitini e gonnelline senza andare in ipotermia. Anche qui potrei fare lo stesso, a patto che indossi calzamaglia termica e ci sia spazio a sufficienza per accogliere un altro collant nel sotto-livello.

Metto i pantaloni.

Indosso i soliti scarponcini invernali con strato isolante, e non faccio in tempo a infilare il secondo piede, che una fitta mi aggredisce la pianta destra. Posizione sbagliata? No. Assenza di attività fisica nella mia vita? Può darsi. Ma il dolore rimane, non accenna a diminuire. Trattasi chiaramente di segnale, e quando il corpo regala sintomi fisici, dobbiamo ascoltarli, sono nostri amici e vogliono comunicarci qualcosa. Ma cosa? Davvero non capisco questa tendinite improvvisa che mi impedisce di muovermi bene.

Camminando aggrappata al braccio del mio amorevole G., che ogni volta che lo sfioro in pubblico si ritrae come se al posto delle mani avessi coltelli, ci avviamo verso la bellissima Bebelplatz, tristemente famosa per il rogo di libri avvenuto nella primavera del ’33. La Cattedrale sorge lì, perfettamente incastonata in una cornice di edifici eleganti che non sembra nemmeno di essere in Germania.

IN CATTEDRALE.

L’ingresso in chiesa non comporta cedimenti strutturali o improvvise auto combustioni, perciò ci addentriamo tra la folla e assistiamo in piedi alla celebrazione ovviamente iniziata da un pezzo. Impossibile capire tutte le orazioni, ma visto che la tiritera è la stessa per tutte le filiali dell’azienda, non facciamo fatica a seguire gli sviluppi. Un vantaggio della globalizzazione.

Differenze con le messe a cui ero abituata da piccola? A livello di liturgia credo nessuna, la mono-tonalità e l’intonazione delle voci che si susseguono nelle letture è come da noi, se non per qualche erre moscia e qualche aspirata in più.

La grande novità rispetto al passato è senza dubbio la musica. Da noi era proibita perfino la chitarra, probabilmente perché considerata strumento del demonio. Qui c’è una signora Orchestra con tanto di Direttore, e vista la presenza di un Arcivescovo direi che ci sta tutta. Non che ai miei tempi pretendessimo chissà che concerti, ma almeno qualche strimpellata, suvvia…

Alla fine della messa di mezzanotte, ci dirigiamo verso l’uscita: è stato interessante prendere parte a un rituale conosciuto da sempre, plasmato sulle contingenze del nostro presente.

L’Arcivescovo è fermo sul portone e stringe la mano a tutti, uno per uno, facendo gli auguri in dodicimila lingue. Ci saluta in italiano e ci augura buon Natale. Non sarà la stessa cosa, ma almeno per un istante, mi sono sentita davvero a casa.

E no, la cosa non è bastata per farmi riunire al gregge.