Altre forme di quarantena

Ricordi da quarantena

Ehm, senti, il capo non vuole che vieni in ufficio in jeans e maglione. Sai, potrebbe sempre venire un cliente e lui preferisce che, in caso, tu sia sempre in ordine ed elegante. Magari con qualche riga di trucco in più”. 

La probabilità che un cliente piombi senza preavviso nella sede di un suo fornitore, specie quando si tratta di servizi non indispensabili, è come quella che un asteroide colpisca la terra travolgendo solo gli stupidi. Una di quelle leggende del terrore create ad hoc per scassare la minchia ai giovani appena affacciati sul mondo del lavoro e convincerli a fare cose che altrimenti non avrebbero mai considerato. Tipo mettere la gonna, nel mio caso. 

Salvare le apparenze

Mi avesse trovato qualche anno dopo, a Berlino, avrebbe visto un leggero cambiamento di temperamento. Come quella volta in cui, con un contegno da salotto TV, ho zittito le risorse umane mentre cercavano di propinarmi uno stipendio inferiore rispetto a un mio pari pene-dotato. Tutto merito del precedente assoggettamento. 

Dopo quell’uscita infelice del collega (sì, il capo era uno che adorava i confronti) in cui mi si chiedeva di apparire per ciò che non ero, mi sono adeguata alla filosofia predominante di quel posto di lavoro. E non che prima mi presentassi come un’accattona. Semplicemente ho sempre prediletto uno stile semplice, sobrio, che non dà troppo nell’occhio, puntando tutto sulle competenze professionali, che a quanto pare, passano in secondo piano se cerchi di camuffarti da figa spaziale. 

Autenticità

Così, mio malgrado, per non scontentare l’autocrate e salvaguardare il posto, ho dovuto introdurre delle nuove abitudini alla mia quotidianità: sveglia in anticipo di trenta minuti rispetto al solito; accurata selezione dei capi da indossare dalla notte precedente; routine di bellezza prima di correre alla fermata del tram; piastra per lisciare i capelli già abbondantemente piallati per non demoralizzare il padrone e i suoi canoni di avvenenza. 

Ho resistito tre mesi. E non per lo stipendio di merda che a malapena mi copriva le spese, la ripetitività delle mansioni, gli orari da pre-rivoluzione industriale. È che quando decido di usare mascara e rossetto o sono più in mood da vestitino e décolleté, è perché lo voglio io e non di certo per assecondare le manie di un ciambellano di corte

La quarantena dello spirito

Mi sentivo in gabbia, terribilmente in gabbia. Più di adesso, che siamo relegati in questa quarantena opprimente. Perché quella era una gabbia subdola, condita con parole da stacchetti pubblicitari e promesse fantascientifiche su promozioni mirabolanti che sarebbero arrivate a ridosso della pensione. Era una gabbia che socialmente non potevamo rifiutare, né io né gli altri, perché saremmo passati per gli ingrati di turno, gli impazienti che richiedono più diritti dopo pochi mesi dall’assunzione, gli sciacalli che pretendono più vita sociale a discapito dei fatturati milionari dell’azienda. 

In questi giorni a casa ho riscoperto molti modi per aggirare la sensazione di prigionia: a volte imbratto delle tele con la pittura, altre mi cimento a risolvere puzzle dalle forme improbabili o a preparare piatti della tradizione finora solo mangiati a casa di altri. Tutte epifanie meravigliose che però non potranno mai competere con un florido vaffanculo indirizzato alla persona giusta, quando serve.