Questione di culo
Avere culo è una questione del tutto casuale o una caratteristica insita nel DNA di esseri accuratamente selezionati? Me lo sto chiedendo da qualche giorno ormai: me lo domando a ogni telegiornale, a ogni notizia letta sul web, a ogni discussione con gli amici. Considerati gli sviluppi che si sono susseguiti da gennaio fino a oggi, direi che io e G. rientriamo a pieno titolo nel secondo gruppo: quelli che non importa cosa, dove, come o quando, hanno sempre la fortuna dalla propria parte, baciati in bocca con tanto di stretta delle mani sulle guance, in barba alle infezioni in voga al momento.
Se perdi la Corona.
Comincio con il complimentarmi con me stessa per l’abilità dimostrata nel scegliere il timing per il rimpatrio in Italia. Se mi fossi impegnata a trovare il periodo storico più sfigato di tutti, non credo avrei potuto fare meglio di così. D’accordo, nessuno poteva prevedere l’arrivo di un virus tutt’altro che nobile, nonostante l’appellativo, eppure sento che una dose di culo massiccia mi stia seguendo da un po’ ormai, nonostante i rimedi ancestrali potentissimi a cui ogni tanto mi rivolgo in cerca di protezione. Se l’universo deve dirmi qualcosa, questo è il momento giusto per farsi avanti. Ma sempre mantenendo almeno un metro di distanza.
Ricordo esattamente il momento in cui la scorsa estate, alla terza settimana di vacanza in Sardegna, con la pelle che ormai faticava ad abbronzarsi per colpa del sole fuffa tedesco, mi sono detta: “basta, mi sono rotta i coglioni di stare a Berlino, me ne vado“. E nonostante le buone intenzioni, credo che le forze oscure abbiano cominciato a mobilitarsi proprio in quel momento, per far sì che almeno i primi mesi del 2020 fossero abbastanza di merda da farmi chiedere ripetutamente “ma chi me l’ha fatto fare?“. Per gli anni a seguire non garantisco, chissà, potrebbero tornare la peste o l’inquisizione.
Quella volta a Londra.
Nel 2014 il culo mi seguì anche a Londra. Lavoravo in un negozio sulla Oxford Street, una catena di abbigliamento posseduta da una multinazionale con la M maiuscola, una di quelle che fattura miliardi (non milioni) e poi brucia l’invenduto in barba a uno dei virus più letali del mondo, aspetta come si chiamava? Ah sì, povertà. Mi avevano assunta nonostante l’inesperienza per via dei saldi natalizi, assicurandomi che sarebbe stato tutto semplicissimo, una passeggiata. Non esagero quando dico che quella di Londra è stata una delle esperienze lavorative più terrificanti della mia vita. Mi sognavo il negozio pure la notte, con G. che cercava di farmi calmare a ogni sussulto, anche perché, dormendo su un divanetto Ikea grande come un canottino, in una stanza di sei metri quadri, credo si stesse un po’ stancando di ricevere calci. Non era solo il lavoro in sé che mi faceva cagare, era proprio l’ambiente a disgustarmi. Mi toccava passare le giornate con una massa di ragazze indemoniate che facevano i salti di gioia quando nelle riunioni del mattino, la store manager leggeva a voce alta i risultati positivi del giorno prima e soffrivano quando gli stessi non avevano soddisfatto la legge del capitale.
A costo di essere additata come la sindacalista rossa zecca comunista di turno, ho espresso un certo smarrimento in più occasioni. Non capivo il perché di cotanta gaiezza: il padrone cresceva a dismisura, e noi, poveri pirla, ricevevamo sempre lo stesso misero bonifico a fine mese. Consapevole della mia distanza dalle logiche di mercato e vittima di un certo impedimento professionale, ho passato due mesi orribili: ero un caso disperato che non piegava mai bene le camicie, che non riconosceva mai i trilioni di spilli necessari a tenere unite maniche, colletto e polsini, che aveva difficoltà a memorizzare le nuove posizioni degli stand e, per non farmi mancare niente, venivo pure bullizzata dalla manager del reparto uomo a cui stavo palesemente sul cazzo. Poco male, a me sul cazzo mi ci stavano praticamente tutti.
La parolina magica.
“Basta, mi sono rotta i coglioni di stare a Londra, me ne vado!“. E nel pronunciare mentalmente queste parole, la sera del primo gennaio, dopo una giornata passata a piegare vestiti e lottare con gente impazzita dai saldi, con uomini che mi chiedevano “secondo te come mi stanno questi?” – ma che minchia ne so io, trovati moglie! – è esattamente in quel momento che sono uscita dal negozio sulla Oxford Street, ferma davanti alla vetrina per assaporare il momento della libertà dopo qualcosa come 11 ore di lavoro e, un piccione grosso quanto un frigorifero, probabilmente ancora pieno dal cenone di Capodanno, ha ritenuto opportuno evacuare il contenuto del proprio intestino sulla mia testa.
“Stai scherzando vero?“. Ero talmente frustrata che anche le parolacce avevano perso il loro effetto catartico, come le medicine dopo la data di scadenza. Piuttosto che rientrare nel bagno del quarto girone dell’Inferno (se devo pensare a un mondo di avari e prodighi me lo immagino così), ho sfilato dalla tasca l’unico fazzoletto a disposizione, naturalmente sporco, perché il disagio è bello quando dura molto. Ah, e piove sempre sul bagnato, ma se piove merda, forse è il caso di attuare misure cautelative più efficienti.
Sbaglierò i modi, forse?
Magari sto sbagliando qualcosa nella formulazione delle richieste. Magari, anziché come una contessa dello Yorkshire, dovrei cominciare a parlare con l’Universo come si conviene, dando più spazio a condizionali e formule di cortesia. “Questa permanenza a Londra sta cominciando a crearmi degli scompensi psico-fisici, potrebbe essere che lascio, caro“. Potrei fare una prova e vedere come va, tanto tra virus d’un certo lignaggio, un’economia a rotoli, la sanità al tracollo e gente che al supermercato si copre bocca e naso con la felpa per sentire se il deodorante nuovo regge, potrebbe essere che a breve sentirò il bisogno di pronunciare nuovamente la parolina magica. Certo, visto com’è andata in passato, stavolta ci metterei più attenzione. Anche perché tra un culo e una cagata, anche se minima, c’è una leggera scia di differenza che preferirei non incontrare.