La bufera dentro

Stavano per scoccare le tre, guardavo l’angolo destro del monitor con una certa insistenza, sospirando delusa, ogni volta, perché il tempo scorreva sempre alla stessa maniera, lento, tediante. Era ovvio che la bufera di neve, vento e grandine, si sarebbe abbattuta su Berlino esattamente in quegli istanti, prima di infilare il cappotto e scappare alla volta di casa mia, dove ad attendermi, c’erano i pantaloni felpati del pigiama e il maglioncione spesso 20 cm. Certo, avrei potuto temporeggiare un po’ tra la scrivania e la cucina, ma l’idea di restare in ufficio 5 minuti di più, proprio non la reggevo.
Così, armandomi del mio solito aggraziato equipaggiamento da foca delle nevi, ho sfidato a mio rischio e pericolo la natura furibonda, e sono uscita, verso quella che si sarebbe rivelata come la più lunga traversata della storia dei tragitti lavoro – casa.img_7067
Il primo impatto non è stato così terribile in effetti, ma solo perché non sapevo a cosa stessi andando incontro realmente. Non si vedeva a un palmo di naso, ma tant’è. Queste cose a casa mia non succedono mai, e per una volta, volevo capire anch’io cosa si prova a divincolarsi dentro una tormenta. Genio.
Davanti a me, un candido, bianco paesaggio. Silenzio.
Sì, perché quando la neve cade non fa mica tante scene come la comare pioggia. Lei è delicata, si poggia sul manto stradale in maniera impercettibile, croccante, come se dei piccoli batuffoli di cotone si abbracciassero in un vortice scoppiettante, che volendoci mettere un bel po’ di fantasia potrebbero quasi ricordare un camino acceso. Non fosse che lì fuori l’unica cosa che sentivo crepitare, era la voglia di teletrasportarmi su una spiaggia del mar dei Caraibi.
Sentivo la bufera dentro.
La stavo mangiando. Letteralmente. E la stavano mangiando anche i miei occhi.
Tanti piccoli pallini soffici e bianchi sparati senza senso, in tutte le direzioni. Ne avevo in bocca, dentro il collo, dentro il naso, sui polsi, dentro le pupille. Cercavo di ripararmi come possibile la visuale, anche perché senza quella, avrei davvero fatto poca strada. Ma niente. Quei piccoli bastardelli arrivavano anche dal basso, sollevati da raffiche d’aria improvvise. Tutte le funzioni vitali di base erano compromesse. Insomma, ho imparato che per uscire indenni da una nevicata bisognerebbe smettere di respirare, tenere tappata la bocca, strizzare gli occhi. Cioè andare incontro a morte certa.
Maledetta, pensavo.
E più rimuginavo sulla follia di aver voluto intraprendere a tutti i costi quel cammino, più i simpatici fioccherelli si infilavano ovunque trovassero un pertugio. Quei mini proiettili di granita non davano tregua, si scagliavano contro tutto e tutti, plasmando in pochi minuti uno scenario davvero desolante quanto romantico, devo ammetterlo, anche se in momenti così sarebbe meglio goderne da dietro il vetro di una finestra.
In tutto questo dramma di vita vissuta da una povera ragazza del sud Europa, coperta di neve dalla testa ai piedi, infreddolita, con le calze bagnate, gli occhi appiccicati in un composto di ghiaccio e lacrime, il naso gocciolante e le mani ormai perse chissà dove, c’era un pensiero che non mi dava tregua. E non sto parlando dei dubbi esistenziali del tipo: “ma chi me l’ha fatto fare? Perché sono qui? Mammaaaa!!!”.
No, la mia domanda era un’altra.
Vedendo tutte quelle caviglie scoperte di tedesche sfilarmi davanti agli occhi, protette da fantasmini in cotone e sovrastate da jeans con l’immancabile risvoltino, non potevo fare a meno di chiedermi: ma quindi la calzamaglia termica la uso solo io?