Ho sognato un’azienda

Mi capita spesso di sognare, ma il sogno che ho fatto l’altro giorno, davvero, va raccontato.
Ero stata assunta da un’azienda tedesca, a tempo indeterminato, ed ero felice. Felice ma scettica, perché sapevo che era un sogno, e non ci volevo credere troppo.
Mi svegliavo con un certo anticipo per vestirmi con attenzione e mascherare le occhiaie, volevo essere perfetta, almeno il primo giorno. Poi di corsa a prendere la S-bahn, che per raggiungere l’ufficio ci volevano 40 minuti e non potevo permettermi di sgarrare.
Una volta arrivata si presentò davanti ai miei occhi una scena surreale, ordine, silenzio, gente che parlava con voce sommessa. Sentivo il pericolo in agguato, era pur sempre un sogno e sarebbe potuto saltare fuori un demone in qualsiasi momento a rovinare tutto. Ma non succedeva nulla. Anzi, mi vennero incontro due persone sorridenti e rilassate, una delle due era scalza, come in spiaggia, ma lì non c’era sabbia, c’era solo parquet. Strano, pensavo tra me e me, ma il capo cosa penserà?
Cominciai il tour di presentazione dei colleghi, altre facce sorridenti e rilassate. Ma che avevano tutti? Che persone bizzarre! Dov’era l’adrenalina? Dove gli sguardi nemici?
Continuai il giro turistico per approdare infine alla mia scrivania, enorme, bellissima, apparecchiata con articoli di cancelleria di ogni genere e tipo, pinzatrice, cancellino che non macchia, penne, tante penne. fioriEra inoltre imbandita con fiori di campo e bigliettino di caloroso benvenuto. Tutto per me? Guardavo i miei interlocutori con incredulità, ma loro di tutta risposta continuavano a sorridere, inamovibili. Si vede che erano abituati a situazioni del genere.
“Ma dove sono capitata?”.
Sbucarono poi altri personaggi, chi con le infradito, chi con i pantaloncini da calcetto, chi col vestitino da mare. “Sto proprio sognando”. A nessuno interessava l’abbigliamento, la forma, l’immagine. Persino il grande capo andava in giro in bermuda, roba che in Italia si sarebbe fatto auto-implodere per la vergogna.
Non ricordo esattamente cosa facevo davanti al computer nelle ore successive, so solo che a un certo punto il mio diretto superiore mi guardava allibito dalla sua postazione: “Ma che fai? Stai ancora qua? Sono le 15.30, la tua giornata è finita. Non vorrai cominciare a fare straordinari già da oggi?”.
Questa mi mancava! Il capo che caccia via i dipendenti, l’educazione proprio non è di casa.
“Qui non devi dimostrare niente a nessuno e nessuno ti guarderà male quando andrai via. Non esistono cose del tipo: – Capo posso fare altro per te? Non so un cornetto, un cappuccino? – al contrario, finisci il turno e vai via”.
Ma scusa, come si fa carriera in Germania? Ma sono pazzi?
Non sapevo se avrei potuto reggere con tutta quella pressione psicologica. Era un mondo nuovo per me, inesplorato, sconosciuto, denso di pericoli. Pensavo a come avrei potuto fare per sopravvivere in un sistema così perfettamente scandito e organizzato, io che venivo dalla giungla dell’improvvisazione e degli stage sottopagati, degli sguardi assassini dopo 10 ore di lavoro, di minacce velate e difficoltà a pagare l’affitto ogni mese. In quel mondo così creativamente schiavista mi ero fatta le ossa, e per cosa? Per avere la pappa pronta? Per avere un posto in cui tutto è semplificato al massimo? No grazie, pensavo, sono arrivata fin qui, frustrata e nevrotica, e sfrutterò e snerverò a mia volta, che il lavoro non deve essere una passeggiata né un momento di crescita formativa, te lo devi guadagnare, te lo devi meritare!
Stavo cominciando ad agitarmi, volevo scappare, mi sentivo in gabbia. Finalmente il sogno finisce. Menomale, cominciavo a sentirmi a disagio. Mi riprendo un attimo ma sono ancora basita, destabilizzata. Che esistano davvero posti così? Mi giro verso il comodino e lo vedo. Sta lì a guardarmi in tutta la sua bellezza. Quell’A4 stampato dai nuovi colleghi in cui mi si dà il benvenuto mi strappa un sorrisetto beffardo.
E allora lì capisco che in fondo, forse, gli anormali non sono loro.