Terrorismo psicologico al colloquio di lavoro, un classico. A chi non è mai capitato di dover far fronte a una situazione apparentemente impossibile? Contare i minuti tra una domanda e l’altra e sperare che passino tipo Frecciarossa in aperta campagna? A volte mi capita di guardare il recruiter con la faccia tra l’intontito e l’attonito e chiedermi: “ma perché mi sta facendo questo? Perché a me?”. E i motivi sono tanti, tantissimi: la concorrenza sempre più spietata, la sicurezza nel voler scegliere il miglior candidato possibile, trovare il pelo nell’uovo e l’uovo nel pelo, farti crollare, piangere, invocare i santi, sudare freddo, stanarti se sei troppo sicuro di te, ignorarti i giorni successivi se sei troppo molliccio, insipido, non troppo motivato.IMG_1391
Ultimamente ne sto facendo una gran bella scorpacciata, mio malgrado (e mia fortuna). E devo dire che ogni volta c’è una variabile nuova, un elemento divertentissimo che mi solletica un ghigno di soddisfazione sul volto. Eh sì, recruiter, tu mi stai spulciando ma io ora ti conosco un po’ di più. E se anche mi manderai a cagare sarò un po’ più pronto di prima nell’affrontare un altro piccolo avvoltoio come te.
Dimenticalo.
Noto con piacere che, almeno qui a Berlino, la città dove è buon costume rispondere alle mail dei candidati, nessuno ti dice mai perché non vai bene per quell’azienda. Alcuni, più accorti di altri, si sono inventati la storiella del “eravate rimasti in due, fino alla fine, i migliori in assoluto, dei fighi ipergalattici, ma alla fine abbiamo optato per l’altro candidato perché aveva già avuto esperienza nel settore”. No, aspetta. Dopo tre colloqui di un’ora e mezza ciascuno, prima su Skype e poi in ufficio da voi, a farmi analizzare anche dalla stagista munita di quadernino e matita, mi liquidate così? È uno scherzo? No.
Ci sono poi quelli che manco ti intervistano, e sai perché? No, e non lo saprai mai. Non sei un buon fit per l’azienda. Ah. Ma tipo, ho sbagliato qualcosa? Non so, nel curriculum, nella foto, nell’elenco delle esperienze… Mmmh, non saprei, e comunque tu non lo saprai mai. Fine della storia.
Insomma, è un amore a senso unico, un interesse non corrisposto, una volontà di crescere e migliorare che devi soddisfare da qualche altra parte, un darti anima e corpo a qualcuno che non ti merita. È pur sempre vero che anche un banale colloquio è già una piccola esperienza di per sé, può insegnarti tanto, aiutarti a sviluppare un profondo senso critico e a selezionare l’azienda giusta per i tuoi canoni. Il colloquio dà, il colloquio toglie. Come il mare, solo un po’ meno bello. Dà spasmi, emozioni, eccitamenti, frustrazioni, sensi di colpa, creatività a palate; toglie energie, voglia di vivere e tutta la fantasia annessa e connessa.
Una domanda ormai da giorni mi perseguita, e ancora non ho trovato una risposta: come fanno quelli delle risorse umane (o i capi in persona) a giudicare se vai bene per quella posizione o no con le seguenti domande:

  1. In una parola, come ti descriverebbe il tuo migliore amico? Io posso anche dirtelo, ma ci rendiamo tutti conto vero, amici presenti in sala, che la risposta la darò io, cioè il soggetto in questione, pilotando l’aggettivo verso direzioni a me favorevoli che potrebbero discostarsi anni luce dai pensieri del mio migliore amico?
  2. Cosa non ti piace di Berlino? Segue momento di sordo imbarazzo. Balbetto cose tipo “naturalmente non posso dire che mi piace e basta, sarebbe troppo banale…”. Sguardo impassibile dell’intervistatrice. Mi strofino le cosce. Ancora silenzio. Ok invento. “Il mio quartiere, Wedding, non c’è nulla di che lassù”. Risposta: “ma Wedding è il futuro!”. Risposta sbagliata, dunque. Avanti così!
  3. Descrivi il lavoro dei tuoi sogni. “Vorrei non essere vincolata ad un posto fisico in particolare, ma viaggiare, lavorare con un pc e una connessione a Internet, cercando di coniugare tutte le mie passioni”. E comunque tu non puoi aiutarmi.

Ogni colloquio è una gemma rara e preziosa, una lezione irripetibile che non si impara sui libri di scuola. Il colloquio in fondo è un’arte. L’arte di arrangiarsi, l’arte di improvvisare, l’arte di sparare cazzate, a volte è bene spararle forti, altre contenute, ma allo stesso tempo è l’arte di essere se stessi. E quella, senza dubbio, è la più vincente di tutte.